Giuseppe Di Vittorio (Italian Wikipedia)

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rassegna.it

  • Così Giuseppe Di Vittorio raccontò le sue vicende carcerarie con Bruno Buozzi a Parigi: «Il nostro incontro avvenne nel febbraio 1941, nella prigione de La Santé. Ignoravo che anche Buozzi si trovasse rinchiuso nella stessa prigione. Un giorno, verso la fine di febbraio, la polizia hitleriana addetta alle funzioni carcerarie, trasse dalla monotonia delle celle d’isolamento un folto gruppo di detenuti per una corvée. Bisognava scaricare alcuni autocarri carichi di eccellente pane, destinato ai nostri carcerieri. Fummo raggruppati in un cortile, dal quale poi, per gruppi di dieci detenuti in fila indiana, scortati da guardie armate di mitra, si partiva carichi di sacchi ripieni di pagnotte, verso i magazzini dell’immensa prigione. Fu in quel raggruppamento di detenuti comandati alla corvée che rividi Bruno Buozzi. Appena i nostri occhi si incontrarono, con moto quasi istintivo manovrammo entrambi accortamente per avvicinarci l’uno all’altro. Riuscimmo appena a toccarci furtivamente le mani, giacché la severissima vigilanza dei nostri aguzzini tendeva a rendere impossibile ogni scambio di parole e di segni fra detenuti. Vidi gli occhi amichevoli di Buozzi brillare di gioia nel vedermi: ero la prima persona conosciuta e amica che incontrava in quella triste prigione, nello stato di angoscia in cui lo aveva gettato l’arresto. «Per me non m’importa nulla», mi disse subito: «mi preoccupa il grande dolore di mia moglie e della mia bambina, poveretti!». Un urlo da belva emesso da uno dei nostri guardiani, che aveva sentito il bisbiglio di quelle poche parole, troncò sull’inizio la nostra conversazione. Tuttavia riuscimmo a rimanere nello stesso gruppo di dieci e a marciare l’uno dopo l'altro nella corvée. Mentre salivamo uno scalone, curvi sotto il carico del pane, riuscii a dire a Buozzi parole di conforto per la sua famiglia e cercai di sapere le cause del suo arresto. Buozzi mi disse che la Gestapo hitleriana, ignara della sua vera personalità, voleva sapere da lui i motivi del suo arresto, dato ch’egli era stato arrestato su richiesta del governo fascista italiano, per essere trasferito in Italia, a disposizione di Mussolini. Bruno Buozzi aveva appena completato la frase, che uno dei nostri guardiani, con uno spintone improvviso a Buozzi - che mi precedeva - ci sbatté a terra entrambi, facendoci ruzzolare sulle scale, col nostro carico di pane, coprendoci di improperi e di minacce. Fummo subito separati e riportati ognuno nella propria cella, col rimpianto di non aver potuto continuare il discorso e con le narici inondate dalla fragranza di quel pane fresco, che la fame ci faceva sognare ogni notte! Da quel momento, però, con la tecnica nota ai vecchi carcerati politici, riuscii a stabilire collegamenti quasi regolari con Buozzi mediante lo scambio di biglietti, con i quali ci mandavamo notizie e pensieri e qualche cibaria. Dopo alcuni giorni riuscimmo sovente a prendere l'ora d'aria quotidiana nello stesso cortile, dove la possibilità e la volontà dei detenuti di conversare fra loro sono più forti della più occhiuta vigilanza. Tutte le nostre conversazioni, partendo dal presupposto comune dell’assoluta necessità dell’unità sindacale, nazionale e internazionale, e dall'esigenza imperiosa dell’unità d'azione fra i due partiti, comunista e socialista - quale base fondamentale d’unità della classe operaia - rafforzavano continuamente il nostro accordo sulle questioni di maggiore interesse, relative alla riorganizzazione del movimento operaio italiano e alla ricostituzione democratica dell’Italia. Onore e gloria alla memoria di Bruno Buozzi!» da Lavoro, n. 23, 6 giugno 1954, riportato in Rassegna Sindacale Archiviato il 13 gennaio 2017 in Internet Archive., il quotidiano online della CGIL.

senato.it

avanti.senato.it

  • Cfr. in Avanti! del 28 ottobre 1956
  • Questo il testo integrale della dichiarazione di Di Vittorio del 27 ottobre 1956:
    «In ordine al comunicato emesso oggi dalla Segreteria della CGIL sui fatti di Ungheria, che tanto hanno commosso i lavoratori e la pubblica opinione, credo di poter aggiungere che gli avvenimenti hanno assunto un carattere di così tragica gravità che essi segnano una svolta di portata storica.
    A mio giudizio, sbagliano coloro i quali sperano che dalla rivolta tuttora in corso, purtroppo, possa risultare il ripristino del sistema capitalistico e semi-feudale che ha dominato l'Ungheria per interi decenni.
    È un fatto che tutti proclami e le rivendicazioni dei ribelli, conosciuti attraverso le comunicazioni ufficiali di radio Budapest, sono di carattere sociale e rivendicano libertà e indipendenza. Da ciò si può desumere chiaramente che — ad eccezione di elementi provocatori e reazionari legati all'antico regime - non vi sono forze di popolo che richiedano il ritorno del capitalismo o del regime di terrore fascista di Horty.
    Condivido quindi pienamente l'augurio, espresso dalla segreteria della CGIL, che anche in Ungheria il popolo possa trovare, in una rinnovata concordia nazionale, la forza per andare avanti sulla strada del socialismo».
    Cfr. in Avanti! del 28 ottobre 1956

storialibera.it

treccani.it

unita.it

archivio.unita.it

web.archive.org

  • Fai e anarchia, su sindacalmente.org. URL consultato il 29 luglio 2013 (archiviato dall'url originale il 5 marzo 2016).
  • Dati sulla sepoltura al Verano di Vindice Di Vittorio, su inmiamemoria.com. URL consultato il 26 luglio 2013 (archiviato dall'url originale il 5 dicembre 2014).
  • "La vita di Giuseppe Di Vittorio" di Felice Chilanti, su rassegna.it. URL consultato il 16 aprile 2007 (archiviato dall'url originale il 28 settembre 2007).
  • Così Giuseppe Di Vittorio raccontò le sue vicende carcerarie con Bruno Buozzi a Parigi: «Il nostro incontro avvenne nel febbraio 1941, nella prigione de La Santé. Ignoravo che anche Buozzi si trovasse rinchiuso nella stessa prigione. Un giorno, verso la fine di febbraio, la polizia hitleriana addetta alle funzioni carcerarie, trasse dalla monotonia delle celle d’isolamento un folto gruppo di detenuti per una corvée. Bisognava scaricare alcuni autocarri carichi di eccellente pane, destinato ai nostri carcerieri. Fummo raggruppati in un cortile, dal quale poi, per gruppi di dieci detenuti in fila indiana, scortati da guardie armate di mitra, si partiva carichi di sacchi ripieni di pagnotte, verso i magazzini dell’immensa prigione. Fu in quel raggruppamento di detenuti comandati alla corvée che rividi Bruno Buozzi. Appena i nostri occhi si incontrarono, con moto quasi istintivo manovrammo entrambi accortamente per avvicinarci l’uno all’altro. Riuscimmo appena a toccarci furtivamente le mani, giacché la severissima vigilanza dei nostri aguzzini tendeva a rendere impossibile ogni scambio di parole e di segni fra detenuti. Vidi gli occhi amichevoli di Buozzi brillare di gioia nel vedermi: ero la prima persona conosciuta e amica che incontrava in quella triste prigione, nello stato di angoscia in cui lo aveva gettato l’arresto. «Per me non m’importa nulla», mi disse subito: «mi preoccupa il grande dolore di mia moglie e della mia bambina, poveretti!». Un urlo da belva emesso da uno dei nostri guardiani, che aveva sentito il bisbiglio di quelle poche parole, troncò sull’inizio la nostra conversazione. Tuttavia riuscimmo a rimanere nello stesso gruppo di dieci e a marciare l’uno dopo l'altro nella corvée. Mentre salivamo uno scalone, curvi sotto il carico del pane, riuscii a dire a Buozzi parole di conforto per la sua famiglia e cercai di sapere le cause del suo arresto. Buozzi mi disse che la Gestapo hitleriana, ignara della sua vera personalità, voleva sapere da lui i motivi del suo arresto, dato ch’egli era stato arrestato su richiesta del governo fascista italiano, per essere trasferito in Italia, a disposizione di Mussolini. Bruno Buozzi aveva appena completato la frase, che uno dei nostri guardiani, con uno spintone improvviso a Buozzi - che mi precedeva - ci sbatté a terra entrambi, facendoci ruzzolare sulle scale, col nostro carico di pane, coprendoci di improperi e di minacce. Fummo subito separati e riportati ognuno nella propria cella, col rimpianto di non aver potuto continuare il discorso e con le narici inondate dalla fragranza di quel pane fresco, che la fame ci faceva sognare ogni notte! Da quel momento, però, con la tecnica nota ai vecchi carcerati politici, riuscii a stabilire collegamenti quasi regolari con Buozzi mediante lo scambio di biglietti, con i quali ci mandavamo notizie e pensieri e qualche cibaria. Dopo alcuni giorni riuscimmo sovente a prendere l'ora d'aria quotidiana nello stesso cortile, dove la possibilità e la volontà dei detenuti di conversare fra loro sono più forti della più occhiuta vigilanza. Tutte le nostre conversazioni, partendo dal presupposto comune dell’assoluta necessità dell’unità sindacale, nazionale e internazionale, e dall'esigenza imperiosa dell’unità d'azione fra i due partiti, comunista e socialista - quale base fondamentale d’unità della classe operaia - rafforzavano continuamente il nostro accordo sulle questioni di maggiore interesse, relative alla riorganizzazione del movimento operaio italiano e alla ricostituzione democratica dell’Italia. Onore e gloria alla memoria di Bruno Buozzi!» da Lavoro, n. 23, 6 giugno 1954, riportato in Rassegna Sindacale Archiviato il 13 gennaio 2017 in Internet Archive., il quotidiano online della CGIL.
  • Quando Napolitano disse: "in Ungheria l'Urss porta la pace" Archiviato il 23 maggio 2012 in Internet Archive.
  • Giuseppe Di Vittorio, in Donne e Uomini della Resistenza, ANPI (archiviato il 22 dicembre 2022).